03 Nov Massimo
Funesto Festival è un’occasione rara per affrontare collettivamente il tema della morte, qualcosa che spesso evitiamo di discutere. Abbiamo selezionato una serie di parole che potessero facilitare un dialogo aperto, personale e intimo su questo tema. Le abbiamo stampate su delle carte e abbiamo iniziato a incontrare alcuni soci e amici di Sguazzi pronti a condividere i loro pensieri. Ogni incontro è stato profondamente unico. Ciascun dialogo si è trasformato in un breve racconto e in un ritratto fotografico, offrendo uno spazio per aprire un confronto sincero su ciò che spesso rimane nascosto.
Massimo
Massimo inizia il nostro dialogo scegliendo la parola nuvole. Nuvole è anche il nome di un progetto di Sguazzi, dedicato alle iniziative artistiche e creative, da cui si può dire sia nato anche Funesto. Questo nome è un omaggio al film breve di Pasolini, Che cosa sono le nuvole?. Il film racconta di due pupi siciliani, Otello e Iago, interpretati da Ninetto Davoli e Totò. Costruiti per interpretare i ruoli dell’opera, i pupi sono gestiti dall’uomo, burattini viventi senza una reale comprensione del mondo. Ma, nel corso della storia, arrivano a percepire qualcosa oltre la trama che interpretano.
Alla fine, dopo aver recitato la loro parte, Otello e Iago vengono gettati tra i rifiuti. Qui, sdraiati a pancia in su, guardano il cielo e vedono le nuvole per la prima volta. “Che cosa sono?”, chiede Otello. “Sono le nuvole”, risponde Iago. È un momento di scoperta. Per Massimo, questa scena è il culmine del film: Iago realizza, anche solo per un istante, la straordinaria bellezza della vita. “O straziante meravigliosa bellezza del creato!”, esclama Totò. “È una scena che racchiude tutto”, dice Massimo. “La bellezza e la fugacità della vita, il senso di scoperta che arriva spesso alla fine. È per questo che Nuvole si chiama così”. Funesto stesso è nato dentro a questo progetto, con l’idea di esplorare la morte e la vita con uno stupore analogo.
Massimo sceglie poi la parola incidente e racconta della morte di suo zio, il fratello di sua madre, scomparso improvvisamente in un incidente stradale nella notte di Ferragosto. Massimo ricorda come, da bambino, quella morte lo abbia toccato in modo viscerale, più per le sensazioni fisiche che per il concetto di perdita. Era in vacanza al mare con la famiglia, quando, all’alba, il telefono di casa squillò improvvisamente. “Era un suono diverso”, dice, “aveva in sé qualcosa di funesto”. Anche se era piccolo, colse subito che quel suono portava una cattiva notizia, come se il suono stesso fosse stato in grado di trasmettere il peso di ciò che stava accadendo.
Per Massimo, la percezione della morte in quel momento fu qualcosa di confuso, vissuto attraverso gesti e suoni che non riusciva a comprendere appieno. Ricorda il ritorno a casa, sua madre e sua nonna distrutte dal dolore, e suo padre che scaraventò a terra una bottiglia di plastica, generando un rumore improvviso che Massimo non dimentica. “È come se il suono e il gesto fossero diventati una lingua in quel momento”, racconta. “Da bambino non potevo capire la tragedia della morte del fratello di mia madre, né l’angoscia di mia nonna, che aveva perso un figlio. Però quei suoni, quelle azioni, mi fecero percepire qualcosa di tragico, che non si poteva ignorare”.
Solo ora, con gli anni, Massimo comprende appieno cosa abbia significato quella perdita per sua madre e sua nonna. “Il pensiero di perdere un figlio è qualcosa di spaventoso”, riflette. Ora intuisce anche come il dolore di una morte improvvisa si leghi ai rapporti in sospeso, ai non detti, ai conflitti mai risolti. Forse, dice, “la capacità di costruire relazioni serene, senza troppi silenzi, è l’unica ancora di salvezza di fronte a una morte improvvisa”.
Massimo osserva che ogni generazione vive il lutto in modo diverso. “Come può un bambino pensare davvero alla morte?”, si chiede. “Forse solo attraverso un’esperienza fisica”. Un tempo, la morte era più presente nella vita quotidiana, mentre oggi la società tende a nasconderla, allontanandola dalle case e dalla vita familiare. Si interroga su come poter riportare la morte a una dimensione più naturale, in un contesto in cui le generazioni convivono e i legami tra nonni, figli e nipoti sono più stretti. “Ora”, dice, “la morte non appartiene più alla casa, è stata rimossa”.
Un altro aspetto che colpisce Massimo è il valore del rito. “Le religioni danno una dimensione rituale alla morte”, riflette, “e noi, in parte, l’abbiamo persa”. Il rito collettivo è fondamentale, secondo lui, per elaborare il lutto sia a livello individuale che di comunità. “È un passaggio che manca, una catarsi che serve per affrontare la perdita”.
Alla fine del nostro incontro, Massimo sorride e ammette che, ogni tanto, pensa alla sua morte in modo narcisistico, immaginando il proprio funerale. “Mi viene in mente quella scena di Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain”, racconta. Tom e i suoi amici assistono di nascosto al proprio funerale, osservando le reazioni della comunità. Massimo sorride al pensiero di vedersi, anche solo per un attimo, come spettatore della propria fine. È un’idea ironica e dolceamara, come se, anche di fronte alla morte, fosse possibile trovare uno spiraglio di leggerezza.
Massimo è socio di Sguazzi e fa parte del direttivo. È responsabile di Nuvole, il progetto artistico e culturale dell’associazione ed è uno dei principali organizzatori di Funesto Festival.