Le quattro repliche di Antigone. Cerimonia con canzoni, messe in scena dalla compagnia Teatro dei Borgia, hanno attraversato Funesto Festival come un filo teso tra memoria e spaesamento, rito e realtà. Ambientato in luoghi intrisi di significato – dalla Chiesa del Cimitero Monumentale di Bergamo alla Parrocchia di Longuelo, dall’Auditorium di Verdellino al Centro Diurno della Fondazione San Giuliano di Ciserano – lo spettacolo non si limita a raccontare: ci invita a partecipare. Ci rende parte di un rito che, pur nella sua atipicità, risponde a un bisogno umano essenziale: ricordare e dare senso al dolore.
La drammaturgia, firmata da Elena Cotugno e Gianpiero Borgia, ci riporta al contesto pandemico, un periodo in cui la società è stata privata dei suoi riti e del modo di dire addio. Non è solo la storia di una famiglia colpita da una catena di lutti, ma una riflessione sul nostro tempo: cosa succede quando il rito viene negato? Che cosa rimane dell’umanità di fronte a una morte che non può essere accompagnata?
A Bergamo, simbolo mondiale del dolore e della resistenza durante la pandemia, questa riflessione risuona con forza. L’immagine dei camion militari che attraversavano la città carichi di bare, senza possibilità di una degna sepoltura, è rimasta scolpita nella memoria collettiva. Antigone riapre quella ferita, non per infliggere altro dolore, ma per dare al lutto una forma, un rito, una possibilità di essere vissuto e trasformato.
Lo spettacolo sorprende e scuote, come tutto Funesto Festival, che non vuole lasciarci indifferenti. E proprio qui emerge un punto cruciale: Antigone non ha suscitato in tutti lo stesso spirito di accoglienza. In alcuni spettatori ha provocato disagio, rifiuto, persino fastidio. Non per un intento provocatorio, ma per una scelta poetica radicale, volutamente scomoda e spiazzante. Questa eterogeneità di reazioni non è una debolezza, ma parte integrante del percorso che il Festival prova a portare avanti: un confronto aperto, coraggioso e rischioso. Non sempre questo confronto ci trova allineati, ma è proprio attraverso di esso che si tenta, ostinatamente, di trovare un senso al vivere e al morire.
La scena è essenziale, volutamente spoglia: sono i luoghi stessi a caricare lo spettacolo di significato. Ogni replica dialoga con lo spazio che la ospita, trasformando il pubblico da spettatore a parte integrante della cerimonia. Si alternano momenti di compostezza e improvvise esplosioni emotive, in cui amore, rabbia e frustrazione per chi non c’è più emergono con potenza. Il rito, con i suoi canti, i suoi passaggi e i suoi momenti celebrativi, contiene l’emotività, dandole forma e impedendole di disperdersi.
Antigone ci invita a confrontarci con temi che la società contemporanea tende a relegare ai margini: morte, dolore, perdita. Offre spazio a ciò che spesso rimane inespresso, risuonando con le parole di Chandra Livia Candiani: “Vorrei che la morte restasse uno scandalo. Lasciarci scuotere forte, stare muti davanti al mistero: è così che si accoglie l’inaccettabile, non passivamente, ma lasciandosi squassare, ospitandolo.”
La pandemia non ha solo privato molti del rito, ma ha anche mostrato quanto la nostra società sia impreparata ad affrontare il lutto. Antigone tenta di colmare questo vuoto, creando uno spazio sospeso, un tempo di riflessione. Non offre risposte definitive, ma lascia domande aperte. Spiazza, scuote, obbliga a rimanere nel confronto, anche quando è scomodo o difficile da condividere. E forse, proprio per questo, riesce a ricordarci che, parlando di morte, stiamo tentando, con ostinazione, di dare un senso alla vita.