Massimo Zamboni a Funesto Festival: due viaggi tra memoria e identità

Il 30 novembre, il Cineteatro Qoelet di Redona ha accolto una giornata intensa e suggestiva, dedicata a Massimo Zamboni, figura chiave del panorama culturale italiano. Due eventi distinti, una sola narrazione: quella di un artista che intreccia la storia personale con la memoria collettiva, offrendo al pubblico una riflessione intima e universale.

La serata si è aperta con L’eco di uno sparo – Cantico delle creature emiliane, un reading-concerto tratto dall’omonimo romanzo di Zamboni. L’incontro è stato introdotto da Elisabetta Ruffini, direttrice dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, che ha sottolineato l’importanza di eventi come questo per “dare vita alle carte custodite negli archivi, affinché non restino carta morta”.

Zamboni ha raccontato come quelle stesse carte, durante il processo di ricerca, fossero invece “terribilmente piene di vita”, capaci di farlo sentire parte di una genealogia profonda e complessa. Al centro del racconto, la storia del nonno Ulisse, ucciso nel 1944 dai GAP durante la Resistenza, e del partigiano Robinson, che anni dopo sparò al compagno Muso in un atto fratricida, tra amici e compagni.

“Quando mia madre ha saputo che avrei pubblicato il libro, mi ha detto che sarebbe andata a vivere alle Canarie,” ha scherzato Zamboni, evocando le tensioni che un racconto così intimo può generare. Ma ha poi aggiunto con serietà: “Raccontare è stato un modo per riconoscere ciascun protagonista come essere umano, con le sue fragilità e scelte. È così che la mia famiglia ha trovato un’occasione per ricompattarsi.”

Accompagnato dalla musica di Emanuele Reverberi e Cristiano Roversi, Zamboni ha offerto una narrazione polifonica, capace di accogliere prospettive diverse e restituire la complessità storica dei quel periodo. Le campagne reggiane, le vicende dei partigiani e le tensioni della memoria collettiva hanno preso vita, con un equilibrio che ha saputo coinvolgere il pubblico sia emotivamente che intellettualmente.

Dopo un momento conviviale, curato dall’associazione Sguazzi con un buffet che ha favorito il dialogo tra gli ospiti, la serata è proseguita con la proiezione del documentario La macchia mongolica, diretto da Piergiorgio Casotti. Il film racconta il viaggio compiuto da Zamboni e sua figlia Caterina in Mongolia, vent’anni dopo la prima visita dell’artista in quella terra.

Quella prima esperienza, nel 1996, aveva segnato profondamente l’artista, dando vita al celebre album dei CSI Tabula Rasa Elettrificata e accendendo in lui il desiderio di genitorialità. Alla nascita, Caterina presentava una macchia bluastra sulla pelle, detta “macchia mongolica”, che nel documentario diventa il simbolo di un legame tra due mondi: l’Emilia delle radici familiari e la Mongolia delle esplorazioni interiori.

Zamboni ha riflettuto sul significato del viaggio: “l’identità non è mai fissa, è come un viaggio che ci porta lontano da casa per poi farci ritrovare, in modo nuovo, ciò che siamo. È un continuo scoprire l’altro dentro di noi.” Le immagini delle steppe e dei paesaggi mongoli, accompagnate dalla colonna sonora composta dallo stesso Zamboni, hanno trasformato la proiezione in un’esperienza poetica e contemplativa, invitando il pubblico a confrontarsi con il proprio senso di appartenenza e alterità.

Attraverso questi due eventi, Zamboni ha condotto il pubblico in un viaggio che unisce storia, geografia ed esplorazione interiore. Da un lato, le campagne emiliane e i drammi della memoria familiare; dall’altro, gli orizzonti infiniti della Mongolia e la scoperta di una dimensione universale dell’identità.

Funesto Festival, in collaborazione con Gruppo Tobia, Associazione Le Piane di Redona e ISREC Bergamo, ha creato un’occasione unica di riflessione e confronto. “L’eco di uno sparo” e “La macchia mongolica” non sono stati solo racconti, ma esperienze che hanno permesso di esplorare ciò che ci lega agli altri e all’Altrove che portiamo dentro di noi.